Buonasera a tutti!
Dopo aver letto 'Specchio delle mie trame' (la raccolta di racconti di Paolo Sessa), spinta dal desiderio di conoscere maggiormente l'autore e il suo libro sono riuscita a farci una chiaccherata. Ecco cosa ne è venuto fuori. Un abbraccio!
Buonasera, innanzitutto la ringrazio per la sua disponibilità e poi vorrei farle i complimenti per il suo
lavoro. Mi è piaciuto davvero tanto, anche se mi ha lasciato qualche punto interrogativo. Volevo per
prima cosa chiederle: quando è iniziata la sua avventura con la scrittura e cosa l’ha spinta ad
intraprendere questo tipo di ‘lavoro’?
Non so se scrivere sia un'avventura, ma se la vita lo è, lo è anche la scrittura. Scrivere (almeno
per me) è come mangiare e bere e, naturalmente, leggere. Scrivo da sempre, da quando ho
imparato l'alfabeto. Questo lavoro di scrittura creativa (si chiama così?) è il mio primo, ma la
sua genesi è lunga e sofferta, un bel poco di anni, perché quando scrivo sono paranoico,
aggiusto continuamente finché, come diceva il buon Dante, "dal fatto il dir non sia diverso"; e
cioè che i fatti che si raccontano e il linguaggio che li racconta si rispecchino come una sola
cosa (c'è troppa spazzatura in giro! e la scrittura è cosa seria!). Sembrano sei racconti, ma
sono sei romanzi prosciugati da tutte quelle cose inutili e ripetitive che di solito un romanzo
contiene (tranne nei grandissimi).
Nei lunghi anni di studio di letteratura inglese, ho fatto mia l'idea di epifania della Woolf e di
Joyce; si tratta di rivelazioni improvvise, di emersioni della coscienza, di verità profonde che il
nostro stato cosciente di solito non vede o rifiuta.
Quanto a chiamare “lavoro” la scrittura dello
Specchio, mi corre l’obbligo di dire che non si
tratta della mia occupazione principale: io sono soprattutto un linguista, mi occupo di voce e
di lettura ad alta voce su base neuro-scientifiche e linguistiche. Ho appena completato uno
studio sul tema che aspetta un editore; ho all'attivo un saggio (in collaborazione con il prof.
Imbasciati dell'Un. di Brescia, sull'influenza della voce materna sul nascituro, ed. Maimone).
Bene! ho voluto applicare i miei studi sulla voce e sulla lettura dei testi alla scrittura creativa,
e ho scritto lo
Specchio.
‘Specchio delle mie trame’ è un libro altamente introspettivo e, per certi versi, singolare. Da dove nasce
l’idea di questa raccolta di racconti?
L'idea iniziale dei primi due era di scrivere dei romanzi ma, come ti dicevo, col tempo ho
sempre più maturato la profonda convinzione che il romanzo non è più forse il genere per il
nostro tempo: con le sue continue digressioni su questioni spesso marginali rispetto al nucleo
narrativo, col suo voler dire e spiegare tutto, ogni azione, anche la più banale, col suo adagiarsi
sulle descrizioni di ambienti anche quando non hanno alcuna interferenza con la storia
principale, il romanzo finisce coll'essere spesso una paccottiglia (tranne, ripeto, nei geni, ma
allora si contano nelle dita di una mano: Marques, Pennac, Borges, etc. italiani niente, o
pochissimi, etc.). Allora, nella stragrande maggioranza dei casi, ci ritroviamo con quella che
Richard Hoggart chiamava "puff-pastry literature, with nothing inside the pastry" (leggi:
letteratura pasta-sfoglia con niente dentro), come il 90% della letteratura che viene
pubblicata tutti i santi giorni, una letteratura che pare esprimere nient'altro che un mondo di
zucchero filato. E lo
Specchio è diverso? Non lo so: ci ho provato, partendo dalle cose che ho
appena detto.
A proposito di racconto o romanzo, ti cito quello che ha scritto un fine conoscitore di
letteratura a proposito dello specchio (se può servire a chiarire quello che ho detto):
"Siamo proprio convinti che si tratti di una silloge di racconti autonomi e non di un nuovo genere di
romanzo? Ma perché Sessa ricorre a questo espediente, perché nasconde un romanzo entro una silloge di
racconti? Semplice: Sessa non sente più il romanzo, la longa fabula, come la forma narrativa
fondamentalmente rappresentativa del nostro tempo. Il romanzo lo obbligherebbe a scrivere in un modo
che egli non ama. Per fare, dunque, di ogni racconto di quest’opera un romanzo, sarebbe stato necessario
immettere nel testo delle espansioni che Sessa non ama, e che considera “spazzatura”. Esempio: per far
divenire un romanzo il racconto del “Caso Lodini” sarebbero occorse delle espansioni o delle digressioni
più lunghe che avrebbero conferito al testo, o una liricità ridondante che mal si adatta alla prosa, oppure
una melensità del tutto ordinaria e, nondimeno, necessaria, del tipo: “Il maresciallo era seccato” e di
conseguenza spiegarne le ragioni; aprire una prolessi di almeno tre pagine per spiegare cosa l’aveva, in
precedenza, infastidito: una lontana e traumatica rimembranza del rinvenimento del suo primo
cadavere quando era entrato in servizio, ad esempio, sul lago di Garda? Oppure l’aver dimenticato a casa
l’accendino? O il pacchetto, con le due ultime sigarette che aveva in tasca, si era bagnato, in quella
operazione di ripescaggio del cadavere? Sarebbe stato necessario, dire qualcosa in più del palombaro; se
era “affannato” ci doveva essere un motivo: era fuori forma? era ammalato? aveva pranzato molto tardi
quel giorno, e digerito male, aveva avuto una brutta discussione con la moglie? Bene anche queste cose
fanno un romanzo! Ma Sessa, da buon postmoderno, sa che tutta questa “spazzatura”, immagine
speculare della vita quotidiana, non è più letteratura, per cui la scarta e se ne tiene lontano. Il romanzo,
sembra volerci dire Sessa, si può scrivere in modo diverso, operando il rovesciamento tra personaggio e
tema, nascondendo l’unità nel frammento e ricucendo il frammento in una superiore e non fittizia unità
funzionale".
(Lucio Paolo Alfonso, “Specchio delle mie trame” di Paolo Sessa: sei personaggi in cerca di sé stessi", La
voce dell'Jonio, 30 gennaio, 2015.)
Definisci “singolari” queste storie; non so quanto singolare sia questo
Specchio; il tema credo
sia un topos abbastanza conosciuto e, quindi, non proprio originale. Che ci vediamo in uno
specchio? Quello che siamo e non vorremmo essere? Quello che desideriamo? Quello che
temiamo? Quello che siamo dentro e perciò non vediamo? Finti ricordi? False dimenticanze?
In questo
Specchio ogni personaggio, in un modo o nell'altro, ci trova la sua epifania,
rivelazione.
Quanto all’introspezione, mi chiedo se un testo di narrativa che parla di uomini e donne possa
non essere introspettivo. In effetti, capita e, purtroppo, di sovente. Ma, mi chiedo, se un testo
di narrativa non entra nei suoi personaggi, non ne scava la coscienza e ne cava i sentimenti più
nascosti, le ansie, le fobie, le paure, il passato nascosto, che libro è? Mi spiego: cosa c'è (o ci
dovrebbe essere) in un testo di narrativa? Una storia (più o meno complicata), un modo di
raccontarla (la sua struttura narrativa) - insomma una story e una plot - e poi (
last but not
least) le parole, i suoni, la sintassi, il ritmo con cui la storia viene raccontata.
Cominciamo dalla storia: in una storia ci aspettiamo che ci siano dei personaggi (anche uno
solo) che fanno delle cose o a cui capitano delle cose; questi personaggi saranno alti, bassi,
belli, brutti, biondi, scuri, etc.; ma penseranno pure, ameranno, odieranno, proveranno ansia o
paura, avranno un passato, rimorsi, cose da dimenticare, per Dio, e altre da ricordare, per
Giove. Mio nonno mi raccontava sempre delle storie quando ero bambino, ma lì bastava una
sequela di avventure e l'intreccio, che mio nonno era bravo a variare (quale introspezione? -
tutt'al più un poco di morale: uno era o buono o cattivo). Ma un romanzo, per di più in
quest'epoca di profonda crisi delle coscienze, di profondo disagio, può non essere
introspettivo? E che facciamo? Raccontiamo storielle? O scriviamo gialli, rosa e storie alla
Rowling (per citare quelle buone nel loro genere).
Andiamo alla
plot: la struttura del narrare può essere lineare, come le storie di mio nonno o
come gli spaghetti nel pacco; oppure essere contorta, complicata, che va e torna come nel
libero fluire del nostro inconscio o come gli spaghetti nel piatto, tutti attorcigliati e col sugo
sopra a far ulteriore casino. Se non vogliamo la storiella alla Oliver Twist (grande nel suo
genere), ci rimane il tormento di Ulisse e del suo viaggio fuori (nel mare) e dentro (nella sua
coscienza tormentata). Ognuno scelga: io l'ho fatto!
Andiamo al linguaggio: io amo seguire il consiglio del buon Padre Dante, anche scrivendo in
prosa, con l'obiettivo che "dal fatto il dir non sia diverso"; insomma, che le parole coi loro
significati, ma anche con la loro materia sonora esprimano il senso nella stessa direzione; da
qui, la ricerca tormentata della parola "giusta", anche per come suona, della posizione giusta
nella frase perché scivoli libera o crei inciampi laddove la coscienza del personaggio ne
incontra; da qui, la sintassi "giusta" perché il pensiero corra assieme alle sue strutture,
ingarbugliate se lo è il pensiero del personaggio (in quel momento), liquide, se rilassato.
E allora? per una conclusione provvisoria, direi che scrivere è sofferenza; lo scrittore è un
masochista o, nel migliore dei casi, un diverso, un estraneo a se stesso, ma generoso al punto
da lasciare un piccolo spazio dentro di sé al demone che scriverà per lui; sì, perché a scrivere
non è lo scrittore, ma il demone che lo abita.
Riallacciandomi alla sua opinione sulla letteratura, che ho particolarmente apprezzato:
nell'ultimo racconto il protagonista è uno scrittore che cerca risposte proprio nella letteratura …
anche se, in qualche modo, (da quanto ho capito io) sembra non trovarne o, se ne trova, si tratta
di risposte che contengono altri quesiti ancora più intricati. Anche lei vede la scrittura come un
modo per esplorare la vita? Ed è riuscito a trovare risposta, grazie ad essa, a qualche sua
domanda?
Qualcuno ha detto in passato che l'uomo è irrimediabilmente condannato a parlare sempre di sé
quando scrive, forse per manie egocentriche o per bisogno di essere ascoltato.. c'è uno dei
protagonisti che le assomiglia?
Andiamo alla pima domanda: non credo che la scrittura debba fornire risposte di alcun tipo,
anche se poi il lettore ci può trovare quello che cerca. Lo scrittore, no, non fornisce risposte:
basterebbe leggere i sei casi allo specchio per capire che risposte non ce n'è e che ognuno
deve cercare la sua tra le pieghe del libro, tra le righe. Ma lei parlava dell'autore: non lo so;
forse non ne trovo neanch'io come non ne trova Luca Murgia. Lui s'intrippa sulla questione se
la letteratura abbia a che fare con la morale e se sia morale travestire di letterario la realtà
(mettere dei gabbiani, che fanno colore, attorno al cadavere di un suicida). Non lo so, forse la
letteratura, l'arte in genere, è amorale di per sé.
Ricorda Wilde? Non esistono libri morali e libri immorali; esistono solo libri scritti bene e libri
scritti male.
Personalmente, non credo che la scrittura abbia o debba avere alcuna missione speciale.
Tranne ad avere la necessità di informare il panettiere che non deve lasciare il pane per quel
giorno, si scrive per dare corpo a emozioni, esperienze anche interiori e, perché no, si scrive
anche per giocare con le parole e cavare dai loro suoni esperienze significative che non
sempre appartengono in modo plateale alla vita; a volte appartengono semplicemente al
mondo dell’arte e del linguaggio.
La scrittura, in fondo, è un artificio, è un gioco complicato che spesso va per conto suo (lo
sanno meglio i musicisti-compositori); lo scrittore ne tiene la direzione solo apparentemente;
poi, nel corso del processo, la scrittura prende la sua strada,
che forse è proprio la strada di
quell’altro che lo scrittore generosamente ospita dentro di sé, dentro lo specchio. Certo,
quando scavi nella tua psiche o in quella dei tuoi personaggi, forse vedi meglio te stesso; ma il
regalo più bello che puoi fare al lettore è renderlo partecipe del tuo lavoro evitando di
fornirgli risposte definitive e invitandolo a ricercarne una tutta sua. D'altra parte, ogni lettura
è di necessità una riscrittura.
No, io risposte non ne trovo e non ne cerco. L'arte non serve a questo; forse la filosofia.
Andiamo alla seconda domanda, scontata ma inevitabile! Tutti gli scrittori parlano sempre di
sé, ma non per egocentrismo; per una cosa molto più banale: ognuno parla di quello che
conosce; e che cosa conosciamo meglio di noi stessi? Come diceva Fluaubert, "madame Bovary
c'est moi". C'è un protagonista che mi rassomiglia? Tutti e nessuno: un poco sono Dino con la
voglia mattissima di avventure estreme, nell'immaginario, nel mito, nel sole; un poco sono il
tizio senza nome del secondo racconto, un diverso (uno cui può anche capitargli che gli cresca
una coda), un poco albatros (un altro diverso), un poco poeta (un altro diverso): uno
straniero, insomma; un poco sono Mario (la sua infanzia è simile alla mia, padre minatore in
Francia, attentati degli algerini, siamo fine anni '50) col desiderio dell'arte portata all'estremo
sacrificio; un poco Alberto: amo e temo la solitudine, odio la tracotanza e il pressappochismo;
e, naturalmente, un poco Luca Murgia con tutte le sue fisime sulla letteratura, l'odio per le
zanzare e un'esperienza sessantottina alle spalle. Che vuoi sapere di più? Mi somigliano un
poco tutti, ma se può tranquillizzarti, mi somigliano pure i fratelli Karamazov, Oliver Twist,
Amleto, Re Lear, Adso (il monaco di Il Nome della rosa) e così via. Mi somigliano tutti perché
sono uomini, come me e te, perché tutti abbiamo più o meno le stesse angosce, desideri,
pulsioni di morte, perché tutti cerchiamo qualcosa, e perché tutti conosciamo l’Ennui
baudelairiano:
Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat,
Hypocrite lecteur, - mon semblable, - mon frère!
Leggendo il suo libro ho avuto due dubbi riguardo due storie. Nel racconto “Il Clown’ - che prima
lei ha citato - il protagonista è ossessionato dai ricordi. Da dove deriva questo attaccamento così
morboso verso essi?
E nel racconto ‘una domenica’ vi è un episodio un po’ particolare che ha suscitato la mia
curiosità: un incontro ‘intimo’ con un ragazzo al cinema. Cosa l’ha spinto ad inserirlo e che valore
ha nella storia?
Tutti i protagonisti sono più o meno ossessionati dai ricordi, chi più chi meno, tranne forse
Dino, l'unico in viaggio verso un futuro talmente straordinario e sublime (nel senso
romantico, bello e terribile) che non può voltarsi verso il passato. In quanto agli altri
personaggi:
- per il personaggio della coda (l'unico che non ha nome) il ricordo è quasi terapeutico nel
senso che lo aiuta a ricostruire un'identità che ha perduto (a causa di un incidente? di una
lobotomia per guarirlo da una coda fantasma?);
- Alberto è il più solitario di tutti: la vita un fallimento; solo i ricordi possono aiutarlo (Agnese
coi suoi baci alla festa, la scuola da ragazzo col Gigione per compagno, la sorella Ida, la morte
del padre, etc.);
- il signor Gozzi vive un super-presente immediato: sta facendo una colonoscopia e i ricordi
(di quando era studente, delle sue manie sul volo, etc.) lo aiutano a distrarsi dal terrore che
prova all'idea della malattia e dell'invasione sul suo corpo;
- Luca, lo scrittore, vive anche lui un super-presente: sta scrivendo un romanzo e i ricordi
sono legati al suo rapporto con la moglie (entrambi ex-sessantottini) e a com'era un tempo;
- Mario, è vero, è quello più aggrappato ai ricordi, per due ragioni: 1. la morte del suo
compagno di scuola gli ha lasciato una ferita aperta, mai guarita; 2. Mario, per certi aspetti, è
quello che mi somiglia di più e nella sua storia ho buttato i miei ricordi di bambino in Francia
durante la guerra con l'Algeria. Mario, inoltre, è un poco arrivato al capolinea: l'arte
dell'assoluto, quella della risata dedicata ai bambini (al circo); quando arrivi al capolinea solo i
ricordi ti fanno compagnia.
Quanto all'episodio col ragazzo al cinema: intanto è, o era un tempo non lontano, esperienza
abbastanza comune; tieni presente che fino a una ventina di anni or sono la condizione degli
omosessuali era di assoluta segregazione e certo non andavano in giro orgogliosi della loro
diversità col loro compagno. Ad Alberto era ancora più facile (probabile) che capitasse:
cinema di periferia in giornate feriali, da solo, etc. Nulla in particolare mi ha spinto ad inserire
questo episodio: ho fatto semplicemente incontrare due "solitudini" diverse, ma
complementari, entrambi alla ricerca di qualcosa. Nella storia, credo abbia il valore di
accrescere il concetto di solitudine che è la marca caratteristica della storia di Alberto.
Proviamo simpatia per entrambi, Alberto e l'anonimo ragazzo, perché sono due esseri soli.
C'è un racconto che le ha dato un po' più 'filo da torcere' nello scriverlo? E c’è un libro che
apprezza particolarmente? Insomma, un po' il suo libro preferito. O anche un autore in cui
riconosce del talento.
"Filo da torcere!". Bello! E’ una bella immagine dell’attività di scrittura di un testo (dal latino
“textum”, tessuto fatto di fili), complicata, con tutti quei fili... Sì, ce n’è uno: "La coda", che poi è
quello di cui mi sono innamorato di più, perché non sapevo quasi nulla dei processi mentali nei casi
di amnesia (in casi di traumi) e di rinvenimento della memoria e perciò ho dovuto documentarmi
scientificamente. Tieni presente che nulla è lasciato all'automatismo della scrittura in questo
racconto e che tutto è stato passato al vaglio di casi concreti scientificamente esaminati di amnesia,
con qualche libertà artistica. Quindi, la cura per la precisione nella descrizione dei meccanismi mi
ha "stressato" un poco di più. Ma alla fine, ti dicevo, forse anche per questo, me ne sono
innamorato.
2. "Un libro preferito"? E' ingeneroso chiedere a uno cresciuto a pane e libri di sceglierne uno solo.
Dammi almeno tre possibilità (anche se non bastano neanche queste). Mi perdoneranno gli altri che
pure amo alla follia, e spero non organizzino una rivolta alle mie spalle, in biblioteca, mentre
dormo, la notte, in camera da letto. E, comunque, eccone tre:
La Divina Commedia di Dante, il
Re
Lear di Shakespeare, l'
Ulisse di Joyce. Me li porterei in un'isola deserta, certo di non annoiarmi
mai: li puoi leggere mille volte e sono in grado di diventare mille libri, nuovi di zecca a ogni lettura.
Quanto al "talento" in un autore moderno, ce ne sono tanti, anche in questo caso. Lasciami fare due
nomi: Borges e Marquez. Più che avere talento, questi due sono semplicemente inarrivabili.