Ho cercata la pace di me stesso accordando il mio cuore col ritmo cieco delle cose mute. Mi son dissolto nella forza vergine del vento e delle cime, ma dopo il rapido oblio mi son sentita l’anima ululare e dibattersi ancora, raffica ansiosa e anelante in eterno.
(Cesare Pavese)
Secondo
Schopenhauer, la brama di vivere è quel moto incessante che sta alla base di
ogni azione umana. È la volontà -
l’anelito - al realizzarsi, al giungere a un compimento, a sentire qualcosa
di pulsante, di vero. Scrive Roberto
Vecchioni nelle sue Storie di felicità: la felicità la voglio addosso come una febbre. Ed è proprio in questa
febbre, in questo stato di contrita tensione, che Cesare Pavese immerge le sue
poesie. Scritte negli anni in cui la guerra aveva lasciato il posto ad
un’attesa che aveva il sapore di sospensione, le liriche raccolte nelle opere
precedenti a Lavorare Stanca sono tra le più belle di tutta la letteratura
italiana. Morte, sangue, fatica, dolore, silenzio, amore si fanno strada tra le
viscere del poeta per raccontarci di un’angoscia soffocata e di uno strazio
dilaniante. Ci sono anime al mondo che sentono il peso dell’esistenza in
maniera più intensa rispetto ad altre: per esse, anche un lieve cambiamento ha
l’irruenza di uno sparo. Sono quelle che vedono più in profondità, fino alle
radici, e non si arrendono davanti agli ostacoli che incontrano nel cammino.
L’esistenza di Pavese – e la sua ricerca poetica – furono percorse da un
istinto ancestrale, una ricerca appassionata: il midollo della vita. Fu in quel
disperato tentativo ad innalzarsi che si delineano i versi più cupi, stanchi e
intimi della sua produzione. Pavese ci racconta del desiderio di consolazione,
di compagnia; della brama di un amore che sia abbastanza, di una fragilità di
cui prendersi cura, di una vita che potesse andare oltre la superficie e
scavare a fondo senza paura. E la rincorreva, quella vita, con tutte le sue
forze, incespicando, affannandosi, incalzando la penna a scrivere e scrivere le
fatiche e il disagio della lotta. Confessa in Al lento vacillare stanco: “Vita vita tremenda / che mi agitavi in un
dolore ardente / e mi sconvolgevi nel cuore / ogni goccia di sangue, / in una
pienezza indicibile, / che mi mutava il colore la voce e fin gli ultimi gesti /
ad ogni apparire leggero / dei suoi occhi profondi, / scuri cupi, / perduti /
nel viso pallido triste / sotto la lieve nuvola bionda, / fragile come il suo
corpo, / dei tenui capelli evanescenti: / vita vita di sogno / perché ti sei
spenta / così nel mio cuore?”. Circondato da uomini indifferenti,
perfettamente a loro agio con un mondo che li masticava e sputava dopo averne
preso l’essenza, scontò fino alla fine la condanna di una solitudine che
assomigliava ad un trinceramento, ad un esilio volontario. Riecheggiano i versi
di Ungaretti: “lasciatemi così, come una
cosa posata in un angolo e dimenticata” (Natale, Ungaretti). La letteratura
costituì la sua unica scappatoia: l’ennesima via per esplorare l’angoscia e
cercare una via d’uscita, un lume verde, una feritoia illuminata. Forse è per
questo che non si riesce a scorgere viltà nel suo gesto finale – quello di
suicidarsi; piuttosto una disperazione strozzata; l’epilogo di un percorso che
non sembrava avere altra fine. Perdono
tutti e chiedo a tutti perdono: non poteva più fingere, non riusciva a
sopportare più di vivere in un modo che non era vita, “di costringersi con uno sforzo che sente inutile, a un assestamento
diverso che tanto sente inutile e non suo” (Ma perché prendersela tanto coi poveri
suicidi, Pavese). Dimenticava, però, che è proprio così che si giunge alla vita.
È in questo che si scorge il suo senso ultimo: nel proseguire, anche senza
forze, la propria battaglia; nel rimanere fedeli fino alla fine al proprio
iniziale anelito alla vita. Sic itur ad
astra: così si giunge alle stelle, diceva Apollo al figlio di Enea.
Nonostante le asperità, le selve in cui ci troviamo a volte rinchiusi, c’è
ancora una possibilità, la più bella promessa di vittoria: “e quindi uscimmo a riveder le stelle” (Dante, Inferno).